Di Eugenio Pari
La comparsa sulla del movimento operaio, pone in termini nuovi il tema dell’organizzazione politica. I partiti socialisti che si affacciarono sul palco della storia alla fine dell’Ottocento sono una formazione addirittura successiva a forme che il proletariato si era dato in precedenza come le cooperative e il sindacato.
Il movimento cooperativo, non è però esclusività del movimento operaio, rappresenta il tentativo di una risposta a problemi concreti che attraversava il proletariato ed assume caratteristiche diverse in Europa, per esempio: in Inghilterra, dove le prime cooperative risalgono agli anni ’30 dell’Ottocento, si svilupperà intorno alla cooperazione di consumo; in Germania sarà principalmente cooperazione in tema di credito e quindi bancaria e di ispirazione soprattutto cristiana. In Italia, e nella Valle Padana, culla del movimento cooperativo italiano, saranno innanzitutto le cooperative di produzione lavoro e sebbene il movimento socialista vedrà nella cooperazione uno dei principali strumenti attraverso cui applicare la propria linea politica a livello municipale, la cooperazione di impronta cattolica sarà molto importante in primo luogo quella bancaria attraverso il credito popolare. Vi era nel socialismo riformista un primato delle organizzazioni parallele rispetto al partito, questo primato verrà invertito nel Secondo Dopoguerra dove al centro ci sarà essenzialmente il PCI.
Anderlini definisce il collateralismo come
“modello di relazioni coessenziale al primato dei partiti e perdurato, seppure perdendo di forza, per tutto il corso della Prima Repubblica” (2006).
La strutturazione dei partiti prevedeva “cinghie di trasmissione”, le organizzazioni che componevano questi “ingranaggi” non erano affatto una longa manus dei comunisti nella società, inoltre non erano esclusivo patrimonio del PCI che, comunque, con il concorso dei socialisti alimentava questa struttura rendendola capillare e di massa.
La DC, per esempio,
“non era da meno: non solo le organizzazioni innervate sulle parrocchie, ma la CISL, le cooperative bianche, la Coldiretti e altro, ivi comprese le banche rurali e le casse popolari sparse per tutto il Paese. (…) Grandi o piccoli che fossero tutti i partiti, ivi compresi quelli della tradizione liberal-borghese, erano strutturati secondo le forme classiche di integrazione democratico sociale di massa”[1].
Trattare del “modello emiliano”, in particolare della fase del suo apogeo, senza trattare il tema del collateralismo sarebbe discorso lasciato a metà, un discorso che parla si del ruolo egemone e di “regia” del PCI, ma che non riesce a spiegare fino in fondo il modo in cui, effettivamente, il Partito comunista riuscisse a mantenere e sviluppare questo ruolo centrale nel sistema economico-sociale dell’intera regione.
Nella Conferenza organizzativa del 1959 il PCI si affermava un concetto fondamentale nell’ottica di contrasto ai monopoli e al ruolo che il “sistema PCI” poteva svolgere:
“in Emilia-Romagna può svilupparsi una intesa permanente fra organizzazioni sindacali dei lavoratori ed associazioni cooperative, artigiane e di ampi settori dell’industria non monopolistica, volta appunto ad attuare una nuova’ redistribuzione del reddito ed un impulso agli investimenti produttivi, con la limitazione e la liquidazione dei superprofitti di monopolio”[2].
Il movimento cooperativo a partire dagli anni ’70 allenterà questo legame, raggiungendo contestualmente risultati economici e produttivi di maggior rilievo rispetto alla fase in cui, fondamentalmente, era una propaggine del Partito.
Anche il Sindacato allargherà la “cinghia di trasmissione”, nel caso del movimento cooperativo, per quanto riguarda il sistema Legacoop, così come nel caso della CGIL il rapporto tra PCI prima e con i partiti da esso discendenti come il PDS, i Ds e in parte il PD il legame non si interromperà mai del tutto, subirà di certo modifiche ma non sarà mai interrotto soprattutto perché sia dirigenti del mondo cooperativo collegato a Legacoop, sia i dirigenti della CGIL in buona parte avevano e hanno in tasca la tessera di quei partiti e, in misura minoritaria, quella del fu PSI.
Questo fatto, a mio avviso, non fu negativo e non lo sarebbe nemmeno in linea di principio, in quanto è vero che i dirigenti del Sindacato e della Cooperazione vissero una sorta di dipendenza nell’individuazione dei rispettivi gruppi dirigenti rispetto al PCI, che, comunque, si assumeva anche il compito della formazione generale dei quadri, ma queste organizzazioni troveranno nel PCI un importantissimo interlocutore in grado di assumersi il compito di portare a sintesi politica le questioni del sindacato e del mondo della cooperazione. Questo rapporto osmotico non era unidirezionale, dal PCI alle organizzazioni collaterali, bensì anche da queste in direzione del Partito. Le cooperative e la CGIL erano le “antenne” del Partito nella società, erano una vera e propria cartina di tornasole rispetto a ciò che si muoveva nella società e alla capacità di tradurla in una linea politica da parte del Partito.
Guido Fanti parla del contributo attraverso
“progetti e realizzazioni che le organizzazioni sindacali, cooperative, artigiane, commerciali e associative di Bologna e della regione, con il supporto del PCI e del PSI, portarono come contributo essenziale alla costruzione, in pochissimi anni, del ‘modello emiliano’. Una dote ricca di progettazione e investimenti produttivi, di nascita ed espansione di migliaia di ditte artigiane e commerciali e di società Cooperative, con la costruzione di circa 100.000 nuovi posti di lavoro, che si univano a quelli creati dalle attività e dalle opere d’interesse pubblico di comuni e province. L’Emilia-Romagna divenne, così, terra di lavoro per migliaia di disoccupati del Veneto, delle Marche e delle pianure padane lombarde e piemontesi.”[3]
Il collateralismo ha avuto quindi una funzione importante nella strategia dei comunisti italiani, come ha scritto Anderlini con particolare riferimento alla cooperazione:
“se c’è del marcio in Danimarca, esso va ricercato non nel collateralismo, ma in ciò che si è sedimentato dopo la sua eclissi naturale: capi di antica nomina politica che una volta emancipati dal controllo possono essere tentati a trasformare le imprese in feudi, seguendo la via postsovietica al capitalismo, ed entristi ormai liberi di arrampicarsi altrove facendo delle coop la pista di lancio”[4].
Citando Mario Tronti, possiamo affermare che l’organizzazione collaterale fu il tentativo di una classe di farsi Stato e strumento di acquisizione della coscienza di classe:
“il passaggio del proletariato a classe operaia, da classe in sé a classe per sé, di classe a coscienza di classe per mezzo dell’organizzazione. Il capitalismo industriale per superare questa sua interna contraddizione ha dovuto superare sé stesso: andando incontro incontro alle sue nuove contraddizioni che oggi lo affliggono. È su queste ultime che oggi andrebbe centrato il conflitto. Ma potrebbe farlo solo chi si facesse consapevole erede di quella storia: forme di lotta, esperienze collettive, solidarity for ever, tutto il potere ai soviet, e prima mutualismo, associazionismo, cooperazione, e poi sindacato e poi partito fino al tentativo di farsi Stato. E patrimonio ideale, sistema di pensieri, rigorosa teoria, concezione del mondo e della vita, il tutto scoperto, praticato, elaborato con passione e realismo, due dimensioni da riaccostare dentro ognuno di noi. Un cammino luminoso che tutte le ombre in seguito accumulatesi non riescono ad oscurare. Io non capisco, (…), perché – se nel momento drammatico del crollo, almeno nei lunghi anni a seguire – non l’abbiamo messa su questo piano”[5].
Perché, in sostanza, queste organizzazioni che erano comunque originate da ideali di
giustizia sociale e trasformazione del mondo, a un certo punto hanno deliberatamente deciso di venire a meno a questo impegno? Come mai il mondo della cooperazione, e non parlo di quelle false dietro le quali si nascondono spesso condizioni di lavoro infami, hanno prodotto deviazioni mercantili come nel caso della scalata BNL operata nel 2005 da Consorte (il caso di Buzzi e della cooperativa 29 settembre, a mio avviso non ha nulla a che vedere con questo ragionamento e riguarda solo vicende giudiziarie)? È stata solo la reazione di rispondere alla stringente necessità di unire i principi sociali alle esigenze di bilancio, ovvero la questione delle questioni per le cooperative di essere capaci di unire solidarietà e capacità gestionali, di saper trasmettere un valore sociale e per farlo chiudere senza perdite i bilanci delle cooperative? Oppure è stato un venir meno alla propria funzione storica passando dall’altra parte, dalla parte di quelli da cui ci dovevamo difendere ovvero il capitale? Toschi ne parla in questo modo, dando un segnale del fatto che il mondo della cooperazione, nella sua maggioranza, ha ancora sani e robusti anticorpi, e io ne sono convinto:
“Non possiamo, e anche se potessimo non dobbiamo, liberarci della nostra storia, delle nostre storie così diverse eppure così uguali. La nostra è stata una storia di lotta, di divisioni, di discussioni non solo verso ‘gli altri’ ma al nostro interno e nella lotta e nelle avversità siamo cresciuti fino a divenire quello che siamo oggi. Dobbiamo quindi comprendere per progredire, per costruire su fondamenta solide e riconoscibili – le nostre fondamenta – perché solo se ci ri/conosciamo, se ci ri/troviamo, se ci ri/comprendiamo possiamo conoscere, attraverso noi stessi, anche gli altri, discutere con loro, apprezzare le loro idee e i loro progetti e costruire possibili sintesi che ci possano portare a convergere nel ‘punto marxiano’ (…) [del]: miglioramento delle condizioni di vita”[6].
La classe dirigente dell’organizzazione cooperativa ha tratti anche psicologici che ne spiegano la trasformazione, secondo Anderlini:
“nella querelle che ha accompagnato la scalata BNL, ad esempio, mi ha colpito l’insistenza con cui Fassino ha richiamato la potenza economica delle coop e il loro ‘non essere più quelle di una volta’”
stessi concetti espressi da esponenti di Legacoop, affermazioni che, proseguiva Anderlini, sono realistiche ma
“ideologicamente ambigue[a] e, soprattutto, psicologicamente rivelatrici di un’ansia di neo-accreditamento, tipica del complesso d’inferiorità del parvenu, il quale tende a rimuovere la sua origine, anziché farsene un vanto. Di nuovo il complesso, tipicamente trans-comunista, dei ‘figli di un Dio minore’. La faccia perversa e marranesca assunta, dopo la decadenza, del senso aristocratico della diversità comunista. In questo, molti cooperatori, sono emblematici come più non si potrebbe del trans-comunismo”[7].
Nella cooperazione lo sforzo di disinfrancarsi non solo dal rapporto con il Partito, che nell’ottica del movimento operaio, insieme al Sindacato compone lo stesso, può significare anche un allontanamento dalla propria cultura di partenza, nello sforzo di produrre un modernizzazione affidata ad un management attinto dall’esterno dell’impresa cooperativa come in qualsiasi alta SpA. Ciò, è vero, permette maggiori competenze dal punto di vista gestionale e risposte più contingenti alle necessità economico-finanziarie, ma forse queste figure dirigenziali non tengono nella dovuta considerazione la funzione sociale, di trasformazione sociale, propria del movimento cooperativo magari ignorando, per non dire non condividendo, proprio la cultura di partenza che in fin dei conti si innerva nella storia del movimento operaio e degli strumenti (fra cui proprio la cooperazione) che esso ha utilizzato nella lotta per la propria emancipazione.
Parlando del ruolo della cooperazione Sergio Costalli ha sottolineato la necessità di tornare
“a comprendere meglio (…) lo stretto rapporto che esiste tra il nostro operare quotidiano e i bisogni, i desideri e la partecipazione democratica, nel senso più vasto del termine, del corpo sociale e dei cittadini”[8].
[1] F. Anderlini, La città trans-comunista. Appunti di viaggio tra Bologna e altrove. Edizioni Pendragon, Bologna, 2006, pagg. 112-113
[2] G. Fanti e G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa. L’impossibile riformismo del PCI, Pendragon, Bologna, 2005, pag. 81
[3] G. Fanti e G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa. L’impossibile riformismo del PCI, Pendragon, Bologna, 2005, pag. 96
[4] F. Anderlini, La città trans-comunista. Appunti di viaggio tra Bologna e altrove. Edizioni Pendragon, Bologna, 2006, pag. 169
[5] M. Tronti con A. Bianchi, Il popolo perduto. Per una critica della sinistra., Edizione Nutrimenti, Roma, 2019, pagg. 24-25
[6] L. Toschi, in S. Costalli, La città co-operativa, Bruno Mondadori, 2013, pag. 6
[7] F. Anderlini, La città trans-comunista. Appunti di viaggio tra Bologna e altrove. Edizioni Pendragon, Bologna, 2006, pag. 113
[8] S. Costalli, La città co-operativa, Bruno Mondadori, 2013, pag. 29