Archivio mensile:agosto 2008

Famiglia cristiana, critiche al governo e al «premier spazzino»

L’Unità 13 agosto 2008

Nessuna attenuante. “Famiglia cristiana”, il settimanale dei Paolini sferza duramente il governo e con bruciante ironia attacca il «presidente spazzino» e le misure sulla sicurezza, possibile causa di una «guerra tra poveri» nel «paese marciapiede».
In un editoriale, di cui è stata data un’anticipazione, il settimanale passa in rassegna tutti i provvedimenti adottati dal governo e dai sindaci, in particolare quello capitolino, Gianni Alemanno e li contesta uno per uno: i militari in strada, «neanche fossimo in Angola», i sindaci sceriffi «luci e ombre, ma bene decoro e lotta prostituzione», le norme anti elemosina.

«Il cardinal Martino ha posto un dubbio atroce: la proibizione dell’accattonaggio serve a nascondere la povertà del Paese e l’incapacità dei governanti a trovare risposte efficaci, abituati come sono alla ‘politica del rattoppo’, o a quella dei lustrini? La verità – scrive Famiglia Cristiana – è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone (che, però, è meritoria, e Brunetta va incoraggiato)».

Un richiamo preciso è stato indirizzato poi al sindaco di Roma Alemanno per la vicenda «cassonetti». Secondo il settimanale cattolico, «c’è il rischio di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali». Infine una sottolineatura sulla situazione economica: «Troppo chiedere al Governo di fugare il sospetto che quando governa la destra la forbice si allarga, così che i ricchi si impinguano e le famiglie si impoveriscono?».

E Alemanno cerca di difendersi facendo passi indietro: «Voglio rassicurare il direttore e la redazione di Famiglia Cristiana: le ordinanze antidegrado che ci apprestiamo a emanare sono tutte finalizzate alla lotta contro il racket e lo sfruttamento e non hanno nulla a che fare con la guerra ‘ai poveri’ costretti per fame a rovistare nei cassonetti». E aggiunge, con tentativi di arrampicata sugli specchi: «Stiamo parlando, infatti, di provvedimenti diretti ad evitare che riciclatori abusivi frughino nei secchioni dell’immondizia per trovare oggetti da rivendere, lasciando la spazzatura in mezzo alla strada e creando quindi concreti rischi igienico sanitari. Si tratta di un problema molto sentito nella periferia di Roma che ha trovato anche eco in una mozione approvata dal Consiglio Comunale».

Secondo Alemanno a dimostrazione che le ordinanze antidegrado non sono rivolte contro i poveri, «c’è il fatto che sin dall’inizio – ha spiegato – ci siamo impegnati a confrontare questi testi con le organizzazioni di volontariato, cattoliche e non, che sono impegnate in prima linea nella lotta contro la povertà urbana. Quindi, invito gli amici di Famiglia Cristiana a non basarsi sui titoli di giornali per censurare questa o quella iniziativa, ma a prendere concretamente visione delle nostre ordinanze quando il testo sarà definitivamente predisposto e quando avverrà il confronto con il mondo del volontariato».

Mentre con molta meno diplomazia replica il Pdl: «Famiglia Cristiana? Vittima di un colpo di calore», dice Isabella Bertolini, deputata del Pdl. «L’esecutivo ha varato norme che comprendono l’uso dei militari, che stanno facendo egregiamente il loro dovere. Si sono quindi liberati poliziotti e carabinieri, che oggi possono essere impiegati per svolgere le loro normali funzioni. I cittadini apprezzano».

Chi gioca con la guerra

I morti si moltiplicano e si fanno visibili. quelli che compaiono oggi sulle «prime» dei media internazionali sono morti georgiani, civili, pacifici cittadini colpiti nelle loro case da bombe lanciate da aerei russi; ma ci sono altri morti, tanti altri, le cui immagini tragiche per ora non sono arrivate fino alle prime pagine; e sono sud-ossetini, civili, pacifici cittadini colpiti nelle loro case da bombe lanciate da aerei – o da artiglierie – dei georgiani.
Quel che è peggio, non è finita qui.La guerra che si è accesa nel Caucaso non sembra una guerra-lampo – se mai questo termine ha un senso nel mondo moderno, dove le guerre sono sempre fatte contro i civili: è una guerra che sta sfuggendo di mano a chi dalle due parti l’ha voluta; una guerra che di fatto si sta allargando e coinvolgendo altri protagonisti, una guerra che si annuncia lunga e orribile, perché nè gli uni né gli altri possono davvero vincerla.
E perché gli spettatori esterni – gli Occidentali, cioè noi, e gli altri governi che occupano la scena internazionale odierna – non sono capaci di esercitare una seria influenza sulle due parti: sono disposti gli europei, che hanno voluto convincere la Serbia a rinunciare al Kosovo, a far lo stesso con la Georgia filoamericana, convincendola a rinunciare all’Ossezia e all’Abkhazia? Altri, addirittura, cercano di approfittare del conflitto per guadagnare posizioni di forza – l’esempio di George Bush, che dopo aver soffiato sul fuoco per mesi adesso si offre come «mediatore di pace», è fin troppo evidente.
Ma ora che tra Georgia e Russia c’è la guerra vera, con veri eserciti regolari che si sparano e sparano sulle altrui popolazioni, occorre anche cercare un po’ di chiarezza sulle ragioni e sui misteri che stanno dietro a una simile catastrofe politica, diplomatica e umana. Perché le guerre non arrivano per caso e non sempre i motivi che le accendono sono facilmente intuibili. 

Cominciamo alla lontana, dicendo che la guerra scoppiata giovedì notte con l’invasione georgiana della Sud-Ossezia non è che la prosecuzione della guerra che ha infuriato negli stessi luoghi fra il 1991 e il 1992, quando le milizie locali combatterono contro l’esercito di Tbilisi che aveva revocato alla regione il suo status di autonomia. L’esercito sovietico – fino al dicembre 1991 esisteva ancora l’Urss, e la Georgia ne faceva legalmente parte – era presente in tutta la zona: cercò di interporsi tra i belligeranti (appoggiando de facto i sud-ossetini contro i nazionalisti georgiani, che in quel periodo proclamarono la piena indipendenza) e alla fine, diventato nel frattempo esercito russo invece che sovietico, impose un cessate-il-fuoco che lasciava la regione di fatto nelle mani delle milizie locali, con una forza di interposizione benedetta dall’Onu e composta da due-tremila soldati, parte russi e parte georgiani. Questa situazione, pur tra continue tensioni, incidenti, sparatorie, è andata avanti inalterata per sedici anni. Quest’estate le tensioni, gli incidenti e le sparatorie sono andate rapidamente crescendo, fino alla decisione di Tbilisi di chiudere la partita invadendo la regione con il suo esercito. Con la conseguente contro-invasione russa e tutto quel che stiamo vedendo in queste ore.
Ma cos’è l’Ossezia del sud? Una piccola regione montuosa, con circa 70-80mila abitanti di prevalente etnia osseta, sparsi in villaggi inframmezzati da villaggi georgiani. Tskhinvali, la «capitale», è poco più di un insieme di villaggi attaccati uno all’altro. L’unica caratteristica importante del luogo è che sta a cavallo dell’unica strada che collega Russia e Georgia (e Armenia, e Iran) attraverso l’impervia catena del Caucaso. Chi controlla quella strada controlla un flusso commerciale importante. Guardacaso, la leadership separatista sud-ossetina in questi sedici anni ha trasformato la regione in una sorta di centrale del contrabbando, avamposto di traffici d’ogni genere. A parte il contrabbando e una magra agricoltura di sussistenza, l’unico reddito della regione è costituito dai finanziamenti russi.
Perché i georgiani vogliono riprendere l’Ossezia del sud? Al fondo, per puro principio nazionalista: i nostri confini sono quelli, l’Ossezia vi è compresa e questo è quanto. Il primo presidente georgiano, Zviad Gamsakhurdia, portò il paese al disastro e alla guerra civile per togliere l’autonomia agli osseti e agli abkhazi, con una serie di scelte più adatte a un evaso dall’ospedale psichiatrico che a un presidente; il suo successore Eduard Shevardnadze fece finta di niente e riuscì a mantenere la pace; l’attuale Mikheil Saakashvili è arrivato al potere promettendo la riunificazione del paese, oltre che benessere per tutti, sviluppo, progresso e via dicendo. Non ha ottenuto nulla e ora pensa che almeno la riconquista dell’Ossezia potrebbe ridargli lustro.
Perché i russi vogliono l’Ossezia del sud?
Anche qui, al fondo, c’è un puro principio imperiale: abbiamo lì degli interessi, abbiamo dei soldati autorizzati a starci, non sarà un qualunque presidente georgiano a mandarci via, tantomeno con le armi. Inoltre le autorità separatiste sono notoriamente legatissime, sul piano personale, a vari esponenti delle forze armate e di altri siloviki, «uomini della forza», di Mosca; per loro, il mantenimento di un punto di frizione internazionale forte come questo è una garanzia di mantenimento di un potere di ricatto sul Cremlino. Peraltro, Mosca ha concesso a molte migliaia di sud-ossetini la cittadinanza russa: va tenuto presente che al tempo della prima guerra, nel ’91, decine di migliaia fuggirono dalla regione per stabilirsi nell’Ossezia del nord, regione più grande che fa parte della Federazione Russa, abitata da gente della stessa etnia. Questi profughi ebbero la cittadinanza russa, ma poi tornarono al sud, anche perché la loro presenza al nord fu causa di un altro conflitto, questa volta con gli ingusci (ma non allarghiamoci troppo in questo spaventoso puzzle caucasico). Rientrarono a sud, da cittadini russi: e ovviamente Mosca pensa di doverli proteggere da una reconquista georgiana.
A chi fa comodo la guerra? Ai militari, ovviamente: russi, georgiani e sud-ossetini. Ma questo spiega poco, se non la spaventosa facilità con cui si sono susseguite nelle ultime settimane le provocazioni reciproche. Apparentemente, un conflitto su vasta scala nuoce a tutti: l’Ossezia rischia la pura e semplice cancellazione dalla carta geografica; la Georgia rischia distruzioni tremende e l’annientamento delle proprie forze armate, nonché – i precedenti insegnano, e la rissosità delle fazioni politiche di Tbilisi conferma i timori – lo scatenamento di una guerra civile. La Russia rischia un drammatico isolamento internazionale – davvero drammatico, assai più di quanto si possa immaginare ora – e al tempo stesso un disastro politico-militare, perché non è affatto detto, nonostante l’apparente sproporzione di forze, che riesca a «vincere» in senso pieno questa guerra. Anzi.
Chi ha provocato la guerra? Si direbbe che sia i russi sia i georgiani siano caduti in trappole reciproche ben congegnate. Medvedev, è chiaro che non si aspettava di essere coinvolto su questa scala e in tempi così brevi: lo dimostra la tardività delle reazioni politiche all’invasione georgiana (quasi un giorno è passato prima che dal Cremlino uscisse verbo) ma anche l’inadeguatezza della risposta militare. Teoricamente la Russia aveva i mezzi per annichilire in poche ore le forze georgiane avanzanti, usando solo aviazione, elicotteri e paracadutisti; invece l’aviazione è stata usata poco e male, con vecchi aerei (uno di quelli abbattuti dai georgiani, il Tu-22, risale agli anni ’60 e non ha strumenti di difesa dalla contraerea moderna) che hanno bombardato a casaccio la Georgia; di elicotteri non se ne sono visti e i paracadutisti sono stati usati solo nella fase finale della battaglia di Tskhinvali. Al contrario, i generali russi stanno facendo lentamente affluire mezzi corazzati e truppe con uno stile da II guerra mondiale, per giunta in quantità non sufficiente a ottenere una vittoria-lampo. Un errore costante degli alti comandi, che nel ’94 portò alla prima catastrofica spedizione in Cecenia.
Anche Saakashvili, peraltro, sembra essere caduto in una trappola. Contava probabilmente a) nella buona preparazione delle sue truppe, che in effetti non si sono date alla fuga al primo impatto come avvenne sedici anni fa; b) in una non-reazione russa (e non è escluso che qualcuno, a Mosca, glielo abbia fatto credere) o infine c) in un immediato e fortissimo sostegno americano. Promesso o più probabilmente solo sperato. Fatto sta che la reazione russa c’è stata e il sostegno americano si è finora mostrato assai più verboso che concreto. Domani, ovviamente, le cose potranno cambiare, ma per ora Saakashvili non ha avuto dall’Occidente altro che appelli al cessate-il-fuoco e generiche difese della «sovranità georgiana», mentre è costretto a subire l’apertura di un secondo pericolosissimo fronte a ovest, dove i secessionisti abkhazi (assai più solidi e attrezzati degli ossetini) sembrano aver deciso di approfittare della situazione per guadagnare importanti posizioni strategiche.
Persino i leader sud-ossetini sono apparsi sorpresi dagli avvenimenti, nonostante siano stati protagonisti almeno tanto quanto i georgiani delle più recenti provocazioni armate lungo l’incerta linea di demarcazione. Forse pensavano di poter continuare a tirare la corda all’infinito per giustificare la loro stessa esistenza, di fronte a un atteggiamento di Mosca sempre più impaziente nei loro confronti.
Infine: che farà il Cremlino? Il nuovo presidente Medvedev, dopo il lungo silenzio iniziale, ha usato parole dure ma è stato molto attento a giustificare «legalmente» l’azione militare russa con la necessità di difendere a) i militari russi legittimamente di stanza in Ossezia come «peacekeepers» e attaccati dai georgiani; b) i pacifici cittadini dell’Ossezia, la maggior parte dei quali come visto ha un passaporto russo, e che sarebbero stati oggetto di «pulizia etnica» da parte delle truppe d’invasione di Tbilisi. E da parte sua Vladimir Putin si è fiondato direttamente da Pechino a Beslan – sì, proprio il posto del massacro di bambini del 2003 – che è diventato non il centro operativo delle forze armate ma quello dell’«emergenza umanitaria», dove vengono accolti e curati i civili in fuga dal sud. Tutto ciò fa presupporre che prima o poi anche a Mosca verrà tirato fuori il termine «guerra umanitaria». Occorrerà vedere come si sviluppano le operazioni sul terreno: finora, a due giorni dall’inizio dei combattimenti, i russi sono ancora lontani dall’aver conseguito il risultato necessario, cioè la completa «liberazione» dell’Ossezia dalle truppe georgiane. Al contrario, sono ancora sotto tiro e continuano a subire perdite. Questo potrebbe indurre gli alti comandi ad agire «come al solito»: cioè aumentando i bombardamenti sulla Georgia e rendendoli sempre più casuali e indiscriminati.

Astrit Dakli, il manifesto 10/08/2008

Un progetto che riunisca

 

http://www.eddyburg.it/article/author/view/448

Di Rossana Rossanda, il manifesto 10 agosto 2008

Se la sinistra non cercherà innanzitutto di capire che cos’è il capitalismo oggi nel mondo, non andrà davvero lontano. Il manifesto, 10 agosto 2008

Siamo a uno dei punti più bassi della nostra storia: Alberto Asor Rosa ha ragione. Siamo a una crisi intellettuale e morale degli italiani – metà dei quali hanno votato per la terza volta una banda di affaristi ex fascisti e separatisti e l’altra metà si è divisa. Occorre dunque, scrive Asor, un soggetto politico nuovo, pulito e con un’idea di nazione che guardi a sinistra e non insegua fisime comuniste. Nel documento del Crs, Mario Tronti diceva qualcosa di analogo precisando che deve essere una grande forza popolare.
Non che mi piaccia essere una fisima, ma pazienza. Però, allo stato delle cose, non vedo dove questa forza politica sia. Veltroni direbbe: ma come, quella forza sono io, e il Pd. Abbiamo il 34 per cento dei voti, non siamo una combriccola di affaristi, abbiamo un’ipotesi riformista e una moderna icona morale in Robert Kennedy, abbiamo chiuso con ogni tipo di comunismo. Già, solo che l’opposizione a Berlusconi il Partito democratico non la sta facendo. Solo che raramente si è veduto un partito di sinistra così monocratico e poco popolare, se per democratico e popolare si intende un minimo di democrazia partecipata. Solo che, per dirla tutta, che cosa sia il Pd non si è capito ancora: gli avevano dato vita la Margherita e i Ds, ma della Margherita mancano ormai Prodi e Parisi, e Rosi Bindi sembra tenere più per coerenza che per persuasione. Neanche i Ds sembrano un blocco: D’Alema giura per il Partito democratico ma la sua fondazione ha accenti alquanto diversi da quelli di Veltroni. Chi può giurare che al primo congresso questa chimera diventi un animale affidabile?
Fuori del Pd le cose non vanno meglio. La frettolosa coalizione della sinistra Arcobaleno è stata addirittura espulsa dal Parlamento, il suo proprio elettorato avendole giurato vendetta per essersi fatta trascinare nell’avventura di governo. La Sinistra democratica di Mussi ha perduto qualche foglia invece che guadagnarne. I Verdi lo stesso. Rifondazione si è spaccata in due tronconi che neppure si parlano: la maggioranza di Ferrero punta tutto sul conflitto sociale dal basso, la minoranza di Niki Vendola su una raccolta di aree radicali fra le quali quella comunista potrebbe essere una cultura fra le altre, dell’ambientalismo che è più vasto dei Verdi, del femminismo, dei movimenti.
Non vedo perciò, allo stato dei fatti, un soggetto in grado di fare fronte alla slavina di destra. Vedo una quantità di orfani che vorrebbero questo soggetto ma sui quali da diversi anni passano grandinate che li disperdono vieppiù. Ma qual è la causa delle grandinate? Sta soltanto nella risolutezza e la sfacciataggine di Berlusconi? Non credo. La banda che ci governa ripete esattamente forme, metodi e misure di tutti gli esecutivi europei dagli anni ’80: la potente spinta alla disuguaglianza, all’arricchimento di pochi, all’impoverimento dei più, cioè l’ondata neoliberista che ha seguito i «trent’anni gloriosi». È una ripresa della linea che era già stata sconfitta in Europa e negli Usa dopo gli anni ’20.
Ma ora, osserva Asor, essa è già arrivata a un punto morto. Vero, ma non per la forza della sinistra. È nei guai con se stessa. Dal liberismo si oscilla al protezionismo, dal mercato unico alle guerre commerciali simili a quelle del XIXmo secolo – ecco dove stiamo ritornando. Gli Stati uniti hanno l’egemonia militare ma non più economica; questa gli è contestata dalla Cina e dall’India in poderosa crescita. E l’arroganza di Bush ha infilato la sua supremazia militare nella trappola del Medio oriente, mentre l’Europa è insabbiata in una moneta relativamente forte, in un’economia debolissima e in un’iniziativa politica pari a zero.
Questo è il quadro cui siamo davanti. Crediamo davvero che si potrà batterlo con i conflitti sociali dal basso o con l’adunata dei renitenti al veltronismo? Non lo penso. Se vogliamo non solo battere Berlusconi ma dirci dove l’Italia può andare, su quali basi si può ricostruirne una fisionomia intellettuale e morale bisognerà pur passare dalle proteste divise e poco comunicanti a un progetto capace di credibilità, persuasione e mobilitazione. Per questo non serve il Partito democratico, che del liberismo condivide gli orizzonti, né bastano le due anime di Rifondazione: la vastità dell’impegno implica una raccolta di forze che vada molto oltre la sinistra Arcobaleno e la natura dell’impresa implica una dimensione del conflitto che non si risolve dal basso. Del resto, qual è il basso della globalizzazione?
E qui torna la mia fissazione: se siamo, come credo, una tessera di una tendenza mondiale, prima di tutto ad essa dobbiamo dare un nome e di essa definire la mappa. Il nome è il capitalismo dall’ultimo quarto del Novecento agli inizi del Duemila. La mappa è quella dell’intero pianeta. Finiamo di balbettare che tutto è cambiato e perciò niente si può dire, e cominciamo a precisare che cosa questo capitalismo è diventato. Non ci sono più vittorie puramente locali contro di esso. Come i dipendenti di una fabbrica non possono battersi da soli contro la delocalizzazione dell’azienda così un paese europeo non può battersi da solo contro la recessione, quali che siano le pensate protezioniste di Tremonti. Ma quando alla crisi delle classi dirigenti si somma il caos della sinistra il rischio è di essere trascinati via tutti.
Può questo rischio trasformarsi in occasione? Questa è a mio avviso la domanda vera. Credo che sì, per l’ampiezza dei soggetti coinvolti e per la profondità non solo materiale e pecuniaria del disastro ma appunto intellettuale e morale – non è per caso che all’apatia culturale dell’Occidente ormai non si oppongano che nazionalismi o fondamentalismi.
Ma nel medio termine temo che non si possa dare una parola d’ordine rivoluzionaria, almeno nel senso che abbiamo dato a questa parola fino a poco tempo fa: l’esito del ’68 dimostra quanto eravamo già arretrati e quel che è seguito all’89 impedisce anche ai più ostinati di sognare una riedizione dei socialismi reali. Ma la sofferenza sociale e l’ampiezza delle ineguaglianze sono diventate così forti da rendere fragile la stessa tenuta e coesione di ogni singolo paese. Non è con le riforme istituzionali che si può aggiustare la baracca. Potrebbe essere aggiustata, per difficile che sia, con una inversione di tendenza: un intervento che restituisca il primato alla politica piuttosto che ai meccanismi dell’economia, che dia luogo a linee di sviluppo, incluso uno «sviluppo di decrescita», che ridistribuisca la ricchezza a sfavore delle zone forti e a favore di quelle deboli, che decida il taglio dei privilegi sociali, il rilancio su un piano mondiale dei mercati interni (l’impossibilità di procedere del Wto parla chiaro).
Non sarà un’operazione indolore, ma può non essere impossibile. Chi non si ritroverebbe in questo progetto? Soltanto i boss delle stock option d’oro. Non sarà la rivoluzione, ma oggi come oggi sarebbe certamente una rivoluzione culturale.

Sulla guerra in Abchazia

Il «grande gioco» va avanti nel Caucaso

Georgia-Russia, le ragioni di un’escalation

Conciliante sulla questione dell’energia al vertice con i dirigenti dell’Unione europea il 20 ottobre a Lahti (Finlandia), il presidente Putin ha invece accusato il suo omologo georgiano Mikhaïl Saakachvili, di preparare un «bagno di sangue» in Abkhazia e nell’Ossezia meridionale. E il 13 ottobre, il Consiglio di sicurezza all’unanimità ha chiesto a Tbilisi di rispettare l’accordo di cessate-il-fuoco del 1994.

Florence Mardirossian per “Le Monde Diplomatique”, ottobre 2006

Le relazioni tra la Georgia e la Russia non avevano mai conosciuto una crisi così acuta fin dalla seconda indipendenza del paese, il 9 aprile 1991. 27 settembre: Tbilisi annuncia il fermo di cinque militari russi accusati di spionaggio. Cinque giorni dopo, nonostante essi siano stati liberati, Mosca prende misure di ritorsione contro quello che il presidente Vladimir Putin definisce «terrorismo di stato» appoggiato da «sponsor stranieri» (1): sospensione dei collegamenti aerei, ferroviari, stradali, marittimi e postali con la Georgia, embargo sulle importazioni provenienti dalla Georgia e minaccia sui trasferimenti finanziari che rappresentano il 15% del suo Pil. Queste misure saranno presto seguite, secondo Tbilisi, da una «caccia ai georgiani», che sono all’incirca un milione nell’intera Federazione: in dieci giorni circa 500 clandestini sono stati espulsi. Certo una crisi di questa importanza non sorge dal nulla ma attinge le radici negli eventi dell’estate scorsa nelle province dissidenti dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale. Fine luglio 2006, le truppe georgiane penetrano nell’alta valle della Kodori, sola parte del territorio dell’autoproclamata repubblica abkhaziana rimasta sotto il controllo di Tbilisi: la Georgia intende ristabilire un’autorità contestata dall’ex-governatore della valle al tempo della presidenza di Eduard Shevarnaze. Sul posto, a preoccupare la Georgia è stato anzitutto l’acuirsi della crisi tra la leadership abkhaziana e gli abitanti dell’alta valle, gli Svan, originari della vicina regione georgiana. Secondo Tbilisi, questa «operazione riuscita di polizia» avrebbe consentito di ristabilire lo stato di diritto e contribuito alla stabilizzazione della regione, analisi fatta propria da Washington (2). Il segretario generale delle Nazioni unite, invece, nella sua ultima relazione, esprime l’avviso che questa offensiva si proponeva di insediare delle forze nel cuore dell’Abkhazia, in previsione di una ripresa del conflitto (3). Contrariamente al responsabile americano, il segretario dell’Onu pensa che l’invio di soldati nella valle abbia violato l’impegno preso dalla Georgia nel 1994 di ritirare le sue truppe compromettendo in tal modo la stabilità regionale. La tensione è ancora maggiore nell’Ossezia meridionale le cui forze armate fiancheggiano quotidianamente quelle georgiane, ciò che aumenta le occasioni di incidenti. Basta assistere agli interrogatori ai posti georgiani e sud-osseti di sorveglianza installati all’uscita di Tskhinvali – capitale dell’Ossezia meridionale – per misurarvi il clima di ostilità e di sospetto, a tal punto che il minimo alterco rischia di mettere il fuoco alle polveri. Per esempio, all’inizio di settembre, le autorità della repubblica fecero aprire il fuoco su un elicottero sul quale viaggiava il ministro georgiano della difesa, Irakli Okruachvili, accusato di aver violato il loro spazio aereo. Cinque giorni dopo, tre ufficiali sud-ossezi, e un poliziotto georgiano persero la vita nel corso di alcuni scambi di tiri. Per questa ragione, il presidente de facto Eduard Kokoity ha annunciato un secondo referendum sull’indipendenza dell’Ossezia meridionale da tenersi il 12 novembre prossimo – il primo referendum, del 1992, si era risolto con un plebiscito quasi unanime.
La secessione dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale è iniziata prima dello scioglimento dell’Unione sovietica alla fine del 1991. Queste repubbliche indipendenti de facto da una quindicina di anni, non hanno mai ottenuto il riconoscimento da parte della comunità internazionale e in particolare degli stati occidentali, i quali auspicano piuttosto il ritorno all’integrità territoriale della Georgia.
Tuttavia la ripresa delle ostilità, l’estate scorsa, ha notevolmente accresciuto il rischio di riattivazione dei conflitti cosiddetti «congelati» (4), come ci ha confermato alla fine settembre a Sukhumi, il ministro de facto degli esteri d’Abkhazia, Serguej Chamba. Le truppe abkhaziane si attendevano durante l’estate un attacco georgiano, poi probabilmente rinviato alla primavera del 2007 per il sopraggiungere dell’inverno in alta montagna. Le autorità abkhaziane e sud-ossete qualificano come provocazioni le incursioni georgiane che non possono che destabilizzare i loro territori in cui lo status quo, in vigore dopo gli accordi di cessate-il-fuoco del 1992 e del 1994, «compromette sempre di più il recupero dell’integrità territoriale della Georgia» rileva il rapporto dell’Onu che cita i responsabili georgiani. Probabilmente le iniziative del presidente Mikhaïl Saakachvili durante l’estate si spiegavano anche con la prossimità delle elezioni locali del 5 ottobre scorso. Puntando su un riaccendersi del nazionalismo, egli avrebbe intensificato la sua politica di riconquista delle regioni secessioniste d’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, dove sapeva essere stanziate forze russe di mantenimento della pace, accusate dalla Georgia di sostenere le autorità separatiste. Egli si è recato personalmente nell’alta valle della Kodori, accompagnato da Okruatchvili e dal patriarca ortodosso di Georgia, il giorno della celebrazione del tredicesimo anniversario della presa di Sukhumi, capitale d’Abkhazia, da parte delle truppe abkhaziane. Quello stesso giorno, egli fece arrestare i militari russi. E, infatti, le elezioni municipali si sono risolte a vantaggio del potere…
Il presidente georgiano sapeva di poter contare sull’amministrazione Bush che mira a respingere la Russia alle frontiere settentrionali del Caucaso meridionale. Egli aveva strappato un accordo sullo smantellamento delle basi militari russe insediate nel sud-ovest del paese: sotto la pressione degli occidentali, a Istanbul, nel 1999, il vertice dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) spinse i Russi ad accordarsi con i georgiani sulla questione della chiusura di queste basi. E il ritiro dei contingenti da Batum (regione georgiania di Agiaria) e da Akhalkalaki (regione georgiani di Javakezia), in tutto 2.500 uomini, dovrebbe concludersi alla fine del 2008, come il ministro russo della difesa Serghej Ivanov ha confermato in ottobre (5). Su questa scia, il parlamento georgiano ha richiesto quest’anno il ritiro immediato delle forze russe di mantenimento della pace dall’Abkhazia e dall’Ossezia meridionale, e la loro sostituzione con forze di pace internazionali. Di più: alla 61° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, a fine settembre, il presidente Saakachvili ha chiesto che sia posto termine alla mediazione di Mosca e quindi alla presenza delle forze russe, che vorrebbe sostituire con quelle della comunità internazionale. Come non pensare a quanto è successo nei Balcani? Tbilisi, come Belgrado, ha conosciuto nel novembre 2003 una rivoluzione pacifica, detta «delle rose», sostenuta da movimenti in parte finanziati da organizzazioni governative americane. E le province secessioniste della Georgia accoglierebbero domani, come il Kosovo, forze internazionali di pace.
In Kosovo, sotto il mandato della Nazioni unite e della Nato, la forza di mantenimento della pace (Kfor) impedisce alle forze serbe, militari e paramilitari o di polizia speciale, di entrare in Kosovo.
È esattamente la missione che gli accordi di cessate-il-fuoco tra la Georgia, l’Abkhazia e l’Ossezia meridionale attribuiscono alle forze russe di mantenimento della pace: far rispettare gli impegni presi dal governo georgiano e dalle autorità separatiste. Ma perché cambiare sistema, dicono, come la Russia, l’Abkhazia e l’Ossezia meridionale? I dirigenti di questi paesi denunciano la politica dei «due pesi e due misure» della comunità internazionale e degli Stati uniti in particolare. A che pro, chiedono, mandare una forza internazionale di polizia civile sotto l’egida dell’Onu in Abkhazia e estendere il mandato della missione di osservazione dell’Osce all’insieme del territorio dell’Ossezia meridionale? Secondo loro, finora le forze russe hanno garantito il cessate-il-fuoco mantenendo le truppe georgiane a una certa distanza dalle loro frontiere, esattamente come fa la Kfor con i soldati serbi in Kosovo. Peraltro, perché raccomandare l’indipendenza del Kosovo e non quella dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale?
La ragione di questa forzatura internazionale va ricercata in una strategia più ampia. La vecchia zona di protezione sovietica, nella quale Washington appoggia, o addirittura ispira «rivoluzioni colorate» (6), riguarda, con il Vicino Oriente, quell’Asia del Sud-ovest che la dottrina Bush intende «democratizzare» – dalla Mauritania fino al Kazakhstan: ai ventidue paesi della Lega araba si aggiungono cinque Stati non arabi, più le «estensioni» del Caucaso e d’Asia centrale.
Ricca di petrolio e gas, questa zona politicamente instabile costituisce la cerniera tra la Russia, l’Europa e la Cina. Gli Stati uniti vogliono ridisegnarla per rafforzare la loro influenza economica e politica, ma anzitutto il loro insediamento militare. Un progetto che naturalmente preoccupa la Russia, soprattutto perché si tratta di un suo paese confinante. In piena crisi tra Tblisi e Mosca, il presidente Saakachvili ha scelto il Wall Street Journal per esprimere le sue priorità: «In appena tre anni, il mio paese, ieri prova del fallimento economico e sociale di un paese gestito da criminali, è diventato una giovane democrazia con uno sviluppo tra i più veloci del mondo. La Banca mondiale ha recentemente lodato la Georgia, presentata come esempio di riforma nel mondo e come una delle meno corrotte tra le democrazie in via di transizione. Proprio il mese scorso, la Nato ha incluso la Georgia nel nuovo corso dei negoziati di adesione, riconoscendo in tal modo i nostri progressi politici, economici e militari. E, la settimana scorsa, abbiamo completato un piano di azione con l’Unione europea che definisce il nostro progresso irreversibile verso un futuro pienamente occidentale (7)». Per Mosca, l’accelerazione dei negoziati in vista dell’adesione alla Nato costituisce una vera minaccia: la Russia non vuole perdere la sua influenza nei paesi vicini dove la sua presenza non è mai venuta meno dopo lo scioglimento dell’Urss, nonostante il grande gioco americano e i progetti di integrazione della regione nella sfera d’influenza europea. Così facendo, non conta soltanto sulle forze militari di cui dispone nelle zone di conflitto dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud: la stragrande maggioranza delle popolazioni di questi territori avrebbe la cittadinanza russa. In caso di ripresa dei combattimenti, la Georgia si confronterebbe indirettamente con la Russia che, tramite il suo ministro della difesa, ha recentemente ripetuto che garantirebbe la protezione dei suoi cittadini . Tuttavia il rischio di un faccia a faccia con Mosca non è la sola preoccupazione dei dirigenti georgiani. Il presidente Saakachvili dispone di una maggioranza – sebbene uscita dalla «rivoluzione delle rose» – sempre più contestata dall’interno. L’opposizione denuncia sempre più severamente le sue derive autoritarie, protesta contro l’arresto avvenuto, all’inizio di settembre, di ventinove esponenti accusati di cospirazione contro il potere e contro l’anticipo di due mesi delle elezioni locali. Rinasce lo spettro degli anni Gamsakhurdia (9): il nazionalismo bellicoso del presidente, la cui parola d’ordine, «la Georgia ai georgiani», aveva nutrito il separatismo delle regioni di confine, e provocato addirittura a Tiblisi scontri da guerra civile.
A questo proposito, i leader separatisti Serguei Bagapch e Eduard Kokoïty, che si attendono un deterioramento delle loro relazioni con Tbilisi, pretendono che i governi georgiani che si sono succeduti in realtà non avrebbero mai rinunciato a questa politica. Appena scoppiata la crisi attuale, Putin ha messo in guardia il suo omologo americano sul rischio di destabilizzazione che rappresenterebbe un incoraggiamento di un paese terzo alla «politica distruttrice» georgiana (10). La sua voce è stata ascoltata: il 13 ottobre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità il progetto di risoluzione sul conflitto tra la Georgia e l’Abkhazia proposto da Mosca, al quale Washington si opponeva (11). Un documento che condanna l’incursione delle truppe georgiane, di cui chiede il ritiro dall’alta valle della Kodori. Di più, riconosce «il ruolo importante della forza (russa) di mantenimento della pace» in Abkhazia. È vero che Mosca, per parte sua, ha contribuito all’approvazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza che sanziona l’esperimento nucleare nord-coreano…
Sono probabilmente queste prese di distanza dell’Occidente, inclusi gli Stati uniti, nei confronti di Tbilisi che spiegano la reazione radicale del presidente Saakachvili il quale invita i georgiani di Russia a rientrare in Georgia per aiutare il governo a ristabilire l’integrità territoriale del paese – in altre parole: a battersi in Abkhazia (12).

Altri articoli su: http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_lemonde.php3?stringa=GEORGIA

Agli amici di Libera Rimini

I socialisti riminesi da diverso tempo hanno aperto un blog intitolato Libera Rimini (www.liberarimini.it) e spesso hanno la generosità di ospitare commenti sul sottoscritto. Lo dico seriamente: troppa grazia, forse non merito tanta attenzione.

Sta di fatto che ultimamente il gentile redattore dell’ultimo post mi definisce alla guida di quei consiglieri comunali che gridano alla luna, l’avanguardia degli oppositori di maggioranza alla amministrazione Ravaioli, per rimanere comunque in maggioranza. Anche in questo caso ringrazio, ma preciso che, molto modestamente, le posizioni che assumo non sono tanto quelle di oppositore interno, quanto quelle che insieme al mio partito e ai compagni con cui ho l’onore di confrontarmi pensiamo possano essere posizioni non tanto e non solo a vantaggio del Pdci e del centrosinistra, quanto a vantaggio della nostra città.

Mi pare di capire che i compagni di “Libera Rimini” pretendano il passaggio del Pdci all’opposizione e di fatto accettino l’assunto che gli obiettivi dei loro strali politici ci sbattono continuamente in faccia: se si sta nella maggioranza zitti e muti, si fa ciò che decide vicesindaco e sindaco. Ebbene, noi non la pensiamo così e siccome abbiamo la responsabilità, nel bene e nel male, di aver sottoscritto e determinato a scrivere un programma politico per Rimini, l’impegno che con la lealtà di persone serie cerchiamo di portare avanti è l’approvazione di atti conseguenti ed in linea a quel programma.

Penso che sia io che il Pdci possiamo essere criticabili per le posizioni che assumiamo, tutto è discutibile, però deve essere supportato da fatti e proposte alternative così come cerchiamo di fare noi. Però penso non ci si possa criticare per attaccamento alla poltrona o per avere atteggiamenti strumentali alla ricerca di posti. Personalmente, per ciò che vale, per poter continuare le battaglie che spesso isolati abbiamo portato avanti a Rimini (cementificazione, lotta alla rendita immobiliare, una politica a vantaggio dei cittadini in tema di privatizzazione), ho abbandonato la poltrona di assessore provinciale e potrò dire anche cose sbagliate (io penso di no e fortunatamente non sono troppo isolato) ma è importante poterle dire a testa alta, senza nessuno che possa “tirare la giacchetta”.

Sul merito politico i compagni socialisti fanno finta di non sapere che proprio noi comunisti italiani abbiamo più volte richiesto al resto della maggioranza l’avvio di una verifica del programma, non rituale, ma dirimente nell’individuazione degli obiettivi che scaturiranno dalla discussione politica. Insomma, noi abbiamo richiesto una discussione politica, perchè questo facciamo, su quanto è stato fatto, su ciò che si sta facendo e su ciò che si farà. E’ chiaro che se avremo forza cercheremo di correggere gli errori e di spostare a sinistra il percorso di questa amministrazione altrimenti non ci rimmarrà che prendere atto della realtà e a quel punto, nonostante l’interessamento dei socialisti, saremo noi a decidere se rimanere o meno in questa maggioranza.

In vista della verifica posso brevemente riportare i punti su cui chiederemo una vigorosa azione di questa amministrazione:

  1. Politica dei servizi pubblici: arginare gli effetti che il monopolio Hera esercita sui cittadini (aumento ingiustificato delle tariffe, peggioramento dei servizi) salvaguardia dei posti di lavoro e loro stabilizzazione, forte controllo sulle garanzie da applicare ai lavoratori delle cooperative sociali a cui sempre più vengono affidati servizi grazie al fatto che esistono poche garanzie e basse retribuzioni;
  2. arginare la politica di varianti che favorisce solo la rendita immobiliare rendendo pressoché impossibile l’acquisto e l’affitto per migliaia di famiglie riminesi. Dotazione di nuovi strumenti di pianificazione in grado di favorire servizi sul territorio e nuovi alloggi popolari senza che questi ultimi siano il frutto di contropartite immobiliari;
  3. introdurre elementi reali di partecipazione democratiche alle scelte dell’amministrazione attraverso un nuovo ruolo dei quartieri che non devono più essere semplici strumenti di mediazione e interpreti delle scelte della Giunta, ma un luogo di proposta, confronto ed elaborazione delle volontà e della voglia di partecipazione dei cittadini;
  4. politiche sociali: occorre una revisione del welfare locale che occupa tanta parte delle risorse e delle attività dell’amministrazione, venendo troppe volte inteso come semplice strumento di impegno di risorse piuttosto che elemento dinamico di soluzione e rimozione delle cause del disagio;
  5. drastica riduzione dei Cda delle partecipate, ulteriore abbassamento delle spese per consulenze e incarichi esterni potenziando laddove occorra gli uffici comunali e mettendoli nelle condizioni di operare al meglio;

Io spero possa esserci l’occasione di discutere anche con i compagni socialisti perchè nonostante tutto rimango convinto del fatto che possano avere idee per un contributo utile alla discussione che a breve saremo chiamati ad intraprendere.

Dichiarazione di Eugenio Pari sulla situazione alla Valentini

Rimini, 8 agosto 2008
Comunicato stampa

Sulla vicenda delle Industrie Valentini incitiamo il Sindaco, il Presidente della Provincia a fare tutto il possibile per evitare i licenziamenti per sessanta lavoratori.
Nonostante una variante che prevedeva l’ampliamento della sede industriale la direzione dell’azienda è intenzionata a procedere verso l’espulsione dal ciclo produttivo di sessanta lavoratori che si aggiungerebbero alle centinaia di persone che hanno visto perdere il loro posto di lavoro negli ultimi quattro anni a causa della chiusura di aziende storiche della nostra città.

È da tempo che lo diciamo: Rimini rischia di diventare un deserto industriale dove si
sacrificano investimenti produttivi, a vantaggio di molti, sull’altare della rendita e della speculazione, a vantaggio di pochissimi fra i quali, come noto, il Sig. Valentini.
Di imprenditori come Valentini, che preferisce le speculazioni immobiliari alla produzione, Rimini non ha bisogno e credo che sia finalmente arrivato il momento che la politica riminese decidesse da che parte stare: se dalla parte dei lavoratori e dello sviluppo o di questi imprenditori e della rendita.

Quella catastrofe ci insegue

Di Rossana Rossanda

http://www.ilmanifesto.it

Non è certo nel 1974 con l’«Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzhenitsyn che il mondo ha scoperto la vastità della repressione politica nell’Urss. Ne aveva largamente parlato Robert Conquest da parte americana, ne aveva scritto David Rousset su Le Temps modernes di Sartre e una conferma, che più ufficiosa di così non avrebbe potuto essere, era venuta nel 1956 dal rapporto segreto di Khrusciov. Del resto, il primo libro di Aleksandr Solzhenitsyn che conoscemmo era «Una giornata di Ivan Denisovic», un giorno «quasi felice» in un campo di concentramento, e di questo parlavano quasi tutti gli scritti successivi.
Nel romanzo Il primo cerchio si trattava di una reclusione speciale, appena un po’ meno gravosa, di un gruppo di scienziati condannati più che per punirli perché lavorassero assieme a una formula malvagia della quale il regime aveva bisogno. Era stata un’esperienza anche del matematico Solzhenitsyn. A che cosa si doveva dunque il clamore suscitato nel 1974 con Arcipelago? Forse al fatto che mentre i primi libri erano usciti sotto la protezione di Khrusciov questo, a quasi dieci anni dalla sua estromissione, sollevava i furori dell’establishment brezneviano. Solzhenitsyn veniva colpito, doveva scegliere l’esilio negli Usa, gli era tolta la cittadinanza. Ma non solo, credo: era la dimensione non tanto quantitativa quanto quasi metafisica dell’universo concentrazionario che appariva dalle parole di uno scrittore e il carico di umano dolore patito da chi per un nulla era caduto in quella macchina. Vi era caduto anche il capitano Solzhenitsyn, cittadino sovietico come altri, quando a due mesi dalla fine della seconda guerra mondiale aveva scritto parole imprudenti su Stalin in una lettera che permise alla censura di arrestarlo e spedirlo per otto anni in un campo, dal quale sarebbe uscito il giorno stesso della morte di Stalin, il 5 marzo 1953. I campi erano diventati assieme metafisica e letteratura e ne derivava al libro una forza immensa. Alla quale si opposero ancora follemente i partiti comunisti che, come l’Urss brezneviana, cercarono di tenere lontano da sé fino all’ultimo quel carico di orrore di un sistema di cui, neanche più tardi, seppero dire altro se non che «aveva perduto la spinta propulsiva» del 1917. Non è stato il minore dei loro morali errori. Noi dicemmo invece che Solzhenitsyn andava ringraziato, che quella mostruosità andava guardata in volto, che ogni ritardo nel farlo ci si sarebbe rivolto contro. Brecht aveva scritto che noi che avevamo attraversato le guerre di classe non potemmo essere gentili e soltanto domani l’uomo potrà essere amico dell’uomo. Ma quale causa poteva esigere un tale prezzo? I mezzi erano più che stinti sul fine, lo avevano sfigurato. O l’errore stava nello stesso, nell’avere tentato una società di rapporti non mercificati e non capitalistici? Un illustre slavista, Vittorio Strada, scrisse e ripete anche oggi che è appunto questo, che il verme sta in Marx, sta in Lenin, sta nell’idea di rivoluzione. Noi non lo crediamo. Ma quella catastrofe ci insegue. E non possiamo staccarne lo sguardo. Come la Gorgone essa ha pietrificato anche Solzhenitsyn, che non ha mai amato i dissidenti dell’Urss perché lavoravano o credevano di lavorare per un mutamento democratico del regime.
In esilio negli Stati uniti non amò né quel paese, né il suo modo di vita, e non lo auspicò per la Russia. Quando cadde il comunismo e potè rientrarvi non apprezzò Eltsin. La sua figura è tragica non solo per l’esperienza sofferta nel lager ma per il quasi allucinato cercarne l’origine e la soluzione fuori dal mondo, certo da qualsiasi forma di modernità. Nella tradizione di un passato contadino, nelle strutture elementari e aureolate di benevolenza degli zemstvo, fedeli alle leggi di Dio e garantiti da despoti illuminati, che le rivoluzioni cercavano di abbattere contro se stesse. Non è un tema nuovo nella letteratura e nell’arte russa, le sue tracce non stanno soltanto in Tolstoj ma in Esenin o in Cvetaeva o in Tvardovski, è il fantasma di un’antica innocenza contadina. Cui si aggiunge la certezza dell’unicità del destino di una Russia eterna e cristiana. È visionario il nazionalismo di Solzhenitsyn, che arriva a sfiorare temerariamente fin gli umori antisemiti e che lo indurrà nel 2000, lui così solitario e restio, a incontrare Putin e ad avallarne la seconda guerra in Cecenia contro gli infedeli. Come se il passaggio nel gulag gli avesse fatto toccare un limite che lo metteva per sempre fuori della storia.

Presi a testate

Di Galapagos, il manifesto 6 agosto 2008

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Succede, casualmente su un aereo, di «orecchiare» un paio di persone che parlano tra di loro. E, non casualmente visto che parlano di legge dell’editoria, succede di «drizzare» le orecchie. I due (un ministro e un sottosegretario) parlano della «incazzatura» e delle minacce di Feltri di far diventare Libero un quotidiano ferocemente anti-berlusconiano. Non succederà, garantisce il ministro: Berlusconi ha già pronta una soluzione. Sarebbe stato interessante sapere quale. Anche perché un paio di settimane fa in un editoriale Vittorio Feltri aveva espresso «nervosismo» per una riforma vera che salverebbe i giornali di partito e quelli editi da cooperative di giornalisti, unici editori puri in Italia. Rischierebbe invece di non salvarsi il suo giornale, il cui editore (Angelucci) è un imprenditore. Proprietario, peraltro, di un altro giornale (il Riformista) che riceve contributi per l’editoria. Ma Feltri non deve temere.
In attesa che Berlusconi faccia «’o miracolo» – ieri l’ha promesso anche per Alitalia – con la manovra approvata ieri dalla Camera è iniziato il count down che rischia di far chiudere il manifesto e parecchie altre testate la cui unica colpa è di esprimere «idee» e di non essere unicamente contenitori di pubblicità e gadget. I contributi diretti all’editoria costano circa 180-190 milioni l’anno rispetto ai 305 milioni di contributi per le spese postali che in larga parte finiscono in poche capienti mani di gruppi editoriali spesso quotati in borsa con bilanci largamente in attivo. Con il risultato che gli utili distribuiti agli azionisti derivano in parte dalla generosità dello stato.
Se la legge fosse modificata con intelligenza si potrebbe risparmiare un bel po’. In ogni caso sono soldi che contribuiscono a rendere plurale il mondo dell’informazione nel quale, altrimenti, avrebbero diritto di opinione solo poche testate, tutte legate a grandi gruppi economici. Grandi testate che, oltretutto, convogliano quasi tutta la pubblicità residua che non viene intercettata dai colossi televisivi. Ma c’è la certezza che una riforma seria Berlusconi e i suoi non la vogliano: l’obiettivo è togliersi di torno parecchi critici scomodi. Per non far chiudere i giornali «amici», un po’ di soldi il presidente del consiglio è pronto a trovarli.
Ma a rischiare grosso con l’approvazione della manovra non è solo il manifesto: i tagli triennali programmati (oltre 36 miliardi di euro) rischiano di deprimere ulteriormente, e per alcuni anni, l’economia italiana. In questa ottica – magari molti lettori si scandalizzeranno – non possiamo che essere d’accordo con un commento di Cirino Pomicino che sul Sole 24 ore di ieri impartisce una lezione di economia a Tremonti accusandolo di una politica economica pro-ciclica, cioè di tagliare spesa corrente in una fase nella quale la spesa dovrebbe essere sostenuta per rilanciare l’economia. Pomicino non critica i tagli, ma il fattto di non aver indirizzato le risorse che si erano liberate per interventi diretti nell’economia, dando soprattutto impluso agli investimenti. Ma c’è di più: le critiche ai contenuti economici non sono tutto. Il peggio è nei contenuti sociali che prefigurano uno stato leggero nel quale spariscono i diritti: dalla scuola alla pensione, dall’assitenza alla previdenza. Ma soprattutto i diritti dei lavoratori.

Benvenuti a Ligrestown

Trovato su: http://eddyburg.it/article/articleview/11746/0/204/

Il degrado, territoriale e non solo, di una città, fra produzione e trasferimento di “diritti” edificatori. La Repubblica ed. Milano, 1 agosto 2008 (f.b.)

«Vede quella cascina? È amministrata da una società di Ligresti. Siamo buoni vicini di casa. Noi facciamo gli agricoltori, loro fanno gli agricoltori». A parlare è Paolo Bossi, 50 anni, veterinario. Con il fratello Francesco (agronomo), la sorella Giuditta (medico) e la mamma farmacista è affittuario di 40 ettari in via Selvanesco. Non molto lontano dalla sua azienda sorgerà il Cerba: su un’area di Ligresti, come d’altra parte è di Ligresti l’area dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia. Alla Immobiliare Costruzioni dell’ingegnere di Paternò sono riconducibili proprietà nei fogli catastali 633, 635, 655, 685 a sinistra dell’asse di via Ripamonti. Ma altre sue società possiedono terreni a destra di Ripamonti. Questa non è più Milano, è Ligrestown. Il trapasso avviene in modo simbolico ancora sulla via Ripamonti. Uscendo dalla città si incontra prima il palazzo della Coldiretti, con la grossa insegna verde «Consorzio agrario».
Più a Sud, un po’ sopra via Selvanesco, là dove il 24 fa capolinea a rispettosa distanza dall’area di via Macconago del Cerba, svettano le torri di Ligresti. Un simbolo, appunto. Del suo potere e del suo stile. L’ingegnere ha tirato su due piani in più di quelli previsti dalla concessione edilizia. Lo hanno fermato e questi ultimi due piani sono rimasti uno scheletro non costruito, un cappello bucherellato, d’aria e cemento, in testa agli edifici. Dentro c’è l’Inps.

Le tappe del degrado di cui si parla a proposito del parco Sud, sono quattro. Si parte da una azienda agricola funzionante e stabile grazie a contratti di lungo periodo: almeno vent’anni. La proprietà perciò accorcia i contratti degli affittuari, rendendo più onerosi gli investimenti (il rientro deve avvenire in tempi brevi) e più incerte le prospettive: l’agricoltura d’impresa si trasforma in agricoltura di sopravvivenza. Il terzo passaggio è l’abbandono: il contadino va in pensione o getta la spugna, la proprietà non riaffitta. È il gran finale: sui terreni lasciati a se stessi si insinuano attività abusive. Arrivano gli sfasciacarrozze, proliferano le discariche.
Il consigliere comunale verde Enrico Fedrighini la chiama «costruzione del degrado». A cosa serve? «Alla valorizzazione immobiliare dei terreni – risponde Fedrighini – perché i proprietari non sono imprenditori del settore alimentare ma di mestiere costruiscono palazzi». Con la sola Immobiliare Costruzioni, Salvatore Ligresti possiede ettari ed ettari di aree agricole inedificabili fra Cerba e dintorni. Cosa se ne fa? Li coltiva, certo. Però i fratelli Bossi strabuzzano gli occhi nel sentire che il Pgt, il Piano comunale di governo del territorio, potrebbe assegnare un indice di edificabilità dello 0,20 ai terreni coltivati: «L’indice agricolo è dello 0,03. Con lo 0,20, sui nostri 40 ettari verrebbero 80.000 metri quadrati di case, hai voglia quante sono».

Il Pgt assegna alle aree agricole un indice virtuale. La scommessa è che la proprietà lo riversi su altre aree (edificabili) e in cambio ceda gratuitamente l’area al Comune. È la cosiddetta perequazione. Ma gli immobiliaristi sembrano voler puntare sul «degrado costruito», grazie al quale porteranno a casa l’8,15% di aree edificabili in più nelle aree del parco Sud comprese nei Piani di cintura urbana. Perfino la Provincia, che governa il parco, lo ritiene un sacrificio necessario per salvare il resto con gli oneri di urbanizzazione. Ma a questo punto, perché «perequare»? Conviene accettare l’indice di edificabilità e far fare al degrado il suo lavoro. Poi si risanerà costruendo.
La cascina Gaggioli dei fratelli Bossi fa agricoltura biologica. Vende riso, farina, la carne di una cinquantina di mucche (francesi, razza Limousine), ha cinque camere per agriturismo. Molti turisti stranieri preferiscono dormire in campagna e al mattino prendere la bicicletta. Il Duomo è a 6 chilometri. Il fondo della Gaggioli è coltivato in modo documentato dal 1300 ma esiste da prima, da quando i monaci cistercensi bonificarono le paludi, costruirono i canali per irrigare e diedero vita sulle due fondamenta della presenza del bestiame e di una abbondante riserva d’acqua alla produzione di latte, carne, riso, foraggio (mais, orzo, prati).
«Con le ovvie modifiche tecnologiche – spiega Dario Oliviero della Cia (Confederazione italiana agricoltori) – la trasformazione pensata allora è valida concettualmente ancora oggi». Siamo dunque alla fine di una storia plurisecolare? «Per noi – dice Oliviero, che rappresenta la categoria nel direttivo del parco Sud – l’espulsione dell’agricoltura è un fatto evidente». E i piani di cintura urbana con i quali parco Sud, Provincia e Comuni devono dettare le norme urbanistiche di 4.800 ettari prevalentemente in Comune di Milano? «Se ben calibrati – risponde Oliviero – sono un elemento regolatore fondamentale».

Questi sono i campi più fertili d’Europa. Il terreno a medio impasto, né argilloso né sabbioso, è il migliore per i seminativi. Il sindaco Moratti aveva promesso attenzione per il settore. Eppure i Bossi, semplicemente per rifare la stalla, hanno chiesto l’autorizzazione al parco Sud, poi atteso 11 mesi l’ok della commissione edilizia, dalla scorsa primavera aspettano il permesso di costruire. In Comune hanno chiesto lumi sull’allacciamento fognario: «Facciamo una stalla, quali fogne? il letame va nei campi». Questo nel secondo Comune agricolo italiano (800 ettari di terre), nella città che propone al mondo una Expo sull’alimentazione.

Finanziaria. Sunia contro Tremonti: “Il Piano casa solo per i costruttori”

Trovato su: http://eddyburg.it/article/articleview/11770/0/204/

Una forte denuncia dei particolari dell’infame “politìca della casa” del governo: un ennesimo modo di trasferire ricchezza del pubblico al peggiore privato. La Repubblica online, 6 agosto 2008

ROMA – “Una vera e propria truffa” sono queste le parole con cui il segretario nazionale del Sunia, il Sindacato Unitario Nazionale Inquilini ed Assegnatari, Luigi Pallotta, definisce il decreto approvato ieri alla Camere, mentre il piano casa annunciato dal ministro Tremonti viene accusato di essere “l’ennesimo sostegno ai costruttori nostrani che per effetto della crisi vedono crollate le compravendite”.
Con il decreto sostiene il Sunia, “si tolgono 550 milioni di Euro destinati nel 2007 all’emergenza abitativa, ed in particolare alle famiglie disagiate sottoposte a sfratto, per destinarli ad un fondo nazionale che dovrà finanziare un piano casa tutto da definire entro sei mesi, che dovrà successivamente essere attuato dalle Regioni e dai Comuni”.
Gli alloggi poi, secondo il sindacato saranno “in proprietà, quindi, che non servono a nulla e vanno nella direzione opposta alla necessità che lo stesso governo e gli stessi costruttori hanno, sino a poche settimane fa, dichiarato: quella di costruire e recuperare alloggi in locazione a canoni sostenibili dai redditi delle famiglie in cerca di abitazione”.
“O il Ministro nella fretta non si è accorto che nel testo è scomparsa la parola ‘locazione’ da quello che dovrà essere il futuro piano casa – continua Pallotta – oppure non conosce le esperienze europee di social housing che sono in larghissima parte per l’affitto e non per la proprietà. Nella realtà dei fatti e non delle dichiarazioni – conclude il Sunia – vengono tolti i fondi da quella che invece era una prima concreta risposta all’emergenza abitativa, fatta non solo di soldi ripartiti fra le Regioni”.
“Come se non bastasse – prosegue – vengono sottratti altri 280 milioni già destinati ad alloggi in locazione a canone sostenibile, nei contratti di quartiere, a dimostrazione ulteriore di quale indirizzo il governo intende dare alla politica abitativa”.