Il «grande gioco» va avanti nel Caucaso
Georgia-Russia, le ragioni di un’escalation
Conciliante sulla questione dell’energia al vertice con i dirigenti dell’Unione europea il 20 ottobre a Lahti (Finlandia), il presidente Putin ha invece accusato il suo omologo georgiano Mikhaïl Saakachvili, di preparare un «bagno di sangue» in Abkhazia e nell’Ossezia meridionale. E il 13 ottobre, il Consiglio di sicurezza all’unanimità ha chiesto a Tbilisi di rispettare l’accordo di cessate-il-fuoco del 1994.
Florence Mardirossian per “Le Monde Diplomatique”, ottobre 2006
Le relazioni tra la Georgia e la Russia non avevano mai conosciuto una crisi così acuta fin dalla seconda indipendenza del paese, il 9 aprile 1991. 27 settembre: Tbilisi annuncia il fermo di cinque militari russi accusati di spionaggio. Cinque giorni dopo, nonostante essi siano stati liberati, Mosca prende misure di ritorsione contro quello che il presidente Vladimir Putin definisce «terrorismo di stato» appoggiato da «sponsor stranieri» (1): sospensione dei collegamenti aerei, ferroviari, stradali, marittimi e postali con la Georgia, embargo sulle importazioni provenienti dalla Georgia e minaccia sui trasferimenti finanziari che rappresentano il 15% del suo Pil. Queste misure saranno presto seguite, secondo Tbilisi, da una «caccia ai georgiani», che sono all’incirca un milione nell’intera Federazione: in dieci giorni circa 500 clandestini sono stati espulsi. Certo una crisi di questa importanza non sorge dal nulla ma attinge le radici negli eventi dell’estate scorsa nelle province dissidenti dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale. Fine luglio 2006, le truppe georgiane penetrano nell’alta valle della Kodori, sola parte del territorio dell’autoproclamata repubblica abkhaziana rimasta sotto il controllo di Tbilisi: la Georgia intende ristabilire un’autorità contestata dall’ex-governatore della valle al tempo della presidenza di Eduard Shevarnaze. Sul posto, a preoccupare la Georgia è stato anzitutto l’acuirsi della crisi tra la leadership abkhaziana e gli abitanti dell’alta valle, gli Svan, originari della vicina regione georgiana. Secondo Tbilisi, questa «operazione riuscita di polizia» avrebbe consentito di ristabilire lo stato di diritto e contribuito alla stabilizzazione della regione, analisi fatta propria da Washington (2). Il segretario generale delle Nazioni unite, invece, nella sua ultima relazione, esprime l’avviso che questa offensiva si proponeva di insediare delle forze nel cuore dell’Abkhazia, in previsione di una ripresa del conflitto (3). Contrariamente al responsabile americano, il segretario dell’Onu pensa che l’invio di soldati nella valle abbia violato l’impegno preso dalla Georgia nel 1994 di ritirare le sue truppe compromettendo in tal modo la stabilità regionale. La tensione è ancora maggiore nell’Ossezia meridionale le cui forze armate fiancheggiano quotidianamente quelle georgiane, ciò che aumenta le occasioni di incidenti. Basta assistere agli interrogatori ai posti georgiani e sud-osseti di sorveglianza installati all’uscita di Tskhinvali – capitale dell’Ossezia meridionale – per misurarvi il clima di ostilità e di sospetto, a tal punto che il minimo alterco rischia di mettere il fuoco alle polveri. Per esempio, all’inizio di settembre, le autorità della repubblica fecero aprire il fuoco su un elicottero sul quale viaggiava il ministro georgiano della difesa, Irakli Okruachvili, accusato di aver violato il loro spazio aereo. Cinque giorni dopo, tre ufficiali sud-ossezi, e un poliziotto georgiano persero la vita nel corso di alcuni scambi di tiri. Per questa ragione, il presidente de facto Eduard Kokoity ha annunciato un secondo referendum sull’indipendenza dell’Ossezia meridionale da tenersi il 12 novembre prossimo – il primo referendum, del 1992, si era risolto con un plebiscito quasi unanime.
La secessione dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale è iniziata prima dello scioglimento dell’Unione sovietica alla fine del 1991. Queste repubbliche indipendenti de facto da una quindicina di anni, non hanno mai ottenuto il riconoscimento da parte della comunità internazionale e in particolare degli stati occidentali, i quali auspicano piuttosto il ritorno all’integrità territoriale della Georgia.
Tuttavia la ripresa delle ostilità, l’estate scorsa, ha notevolmente accresciuto il rischio di riattivazione dei conflitti cosiddetti «congelati» (4), come ci ha confermato alla fine settembre a Sukhumi, il ministro de facto degli esteri d’Abkhazia, Serguej Chamba. Le truppe abkhaziane si attendevano durante l’estate un attacco georgiano, poi probabilmente rinviato alla primavera del 2007 per il sopraggiungere dell’inverno in alta montagna. Le autorità abkhaziane e sud-ossete qualificano come provocazioni le incursioni georgiane che non possono che destabilizzare i loro territori in cui lo status quo, in vigore dopo gli accordi di cessate-il-fuoco del 1992 e del 1994, «compromette sempre di più il recupero dell’integrità territoriale della Georgia» rileva il rapporto dell’Onu che cita i responsabili georgiani. Probabilmente le iniziative del presidente Mikhaïl Saakachvili durante l’estate si spiegavano anche con la prossimità delle elezioni locali del 5 ottobre scorso. Puntando su un riaccendersi del nazionalismo, egli avrebbe intensificato la sua politica di riconquista delle regioni secessioniste d’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, dove sapeva essere stanziate forze russe di mantenimento della pace, accusate dalla Georgia di sostenere le autorità separatiste. Egli si è recato personalmente nell’alta valle della Kodori, accompagnato da Okruatchvili e dal patriarca ortodosso di Georgia, il giorno della celebrazione del tredicesimo anniversario della presa di Sukhumi, capitale d’Abkhazia, da parte delle truppe abkhaziane. Quello stesso giorno, egli fece arrestare i militari russi. E, infatti, le elezioni municipali si sono risolte a vantaggio del potere…
Il presidente georgiano sapeva di poter contare sull’amministrazione Bush che mira a respingere la Russia alle frontiere settentrionali del Caucaso meridionale. Egli aveva strappato un accordo sullo smantellamento delle basi militari russe insediate nel sud-ovest del paese: sotto la pressione degli occidentali, a Istanbul, nel 1999, il vertice dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) spinse i Russi ad accordarsi con i georgiani sulla questione della chiusura di queste basi. E il ritiro dei contingenti da Batum (regione georgiania di Agiaria) e da Akhalkalaki (regione georgiani di Javakezia), in tutto 2.500 uomini, dovrebbe concludersi alla fine del 2008, come il ministro russo della difesa Serghej Ivanov ha confermato in ottobre (5). Su questa scia, il parlamento georgiano ha richiesto quest’anno il ritiro immediato delle forze russe di mantenimento della pace dall’Abkhazia e dall’Ossezia meridionale, e la loro sostituzione con forze di pace internazionali. Di più: alla 61° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, a fine settembre, il presidente Saakachvili ha chiesto che sia posto termine alla mediazione di Mosca e quindi alla presenza delle forze russe, che vorrebbe sostituire con quelle della comunità internazionale. Come non pensare a quanto è successo nei Balcani? Tbilisi, come Belgrado, ha conosciuto nel novembre 2003 una rivoluzione pacifica, detta «delle rose», sostenuta da movimenti in parte finanziati da organizzazioni governative americane. E le province secessioniste della Georgia accoglierebbero domani, come il Kosovo, forze internazionali di pace.
In Kosovo, sotto il mandato della Nazioni unite e della Nato, la forza di mantenimento della pace (Kfor) impedisce alle forze serbe, militari e paramilitari o di polizia speciale, di entrare in Kosovo.
È esattamente la missione che gli accordi di cessate-il-fuoco tra la Georgia, l’Abkhazia e l’Ossezia meridionale attribuiscono alle forze russe di mantenimento della pace: far rispettare gli impegni presi dal governo georgiano e dalle autorità separatiste. Ma perché cambiare sistema, dicono, come la Russia, l’Abkhazia e l’Ossezia meridionale? I dirigenti di questi paesi denunciano la politica dei «due pesi e due misure» della comunità internazionale e degli Stati uniti in particolare. A che pro, chiedono, mandare una forza internazionale di polizia civile sotto l’egida dell’Onu in Abkhazia e estendere il mandato della missione di osservazione dell’Osce all’insieme del territorio dell’Ossezia meridionale? Secondo loro, finora le forze russe hanno garantito il cessate-il-fuoco mantenendo le truppe georgiane a una certa distanza dalle loro frontiere, esattamente come fa la Kfor con i soldati serbi in Kosovo. Peraltro, perché raccomandare l’indipendenza del Kosovo e non quella dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale?
La ragione di questa forzatura internazionale va ricercata in una strategia più ampia. La vecchia zona di protezione sovietica, nella quale Washington appoggia, o addirittura ispira «rivoluzioni colorate» (6), riguarda, con il Vicino Oriente, quell’Asia del Sud-ovest che la dottrina Bush intende «democratizzare» – dalla Mauritania fino al Kazakhstan: ai ventidue paesi della Lega araba si aggiungono cinque Stati non arabi, più le «estensioni» del Caucaso e d’Asia centrale.
Ricca di petrolio e gas, questa zona politicamente instabile costituisce la cerniera tra la Russia, l’Europa e la Cina. Gli Stati uniti vogliono ridisegnarla per rafforzare la loro influenza economica e politica, ma anzitutto il loro insediamento militare. Un progetto che naturalmente preoccupa la Russia, soprattutto perché si tratta di un suo paese confinante. In piena crisi tra Tblisi e Mosca, il presidente Saakachvili ha scelto il Wall Street Journal per esprimere le sue priorità: «In appena tre anni, il mio paese, ieri prova del fallimento economico e sociale di un paese gestito da criminali, è diventato una giovane democrazia con uno sviluppo tra i più veloci del mondo. La Banca mondiale ha recentemente lodato la Georgia, presentata come esempio di riforma nel mondo e come una delle meno corrotte tra le democrazie in via di transizione. Proprio il mese scorso, la Nato ha incluso la Georgia nel nuovo corso dei negoziati di adesione, riconoscendo in tal modo i nostri progressi politici, economici e militari. E, la settimana scorsa, abbiamo completato un piano di azione con l’Unione europea che definisce il nostro progresso irreversibile verso un futuro pienamente occidentale (7)». Per Mosca, l’accelerazione dei negoziati in vista dell’adesione alla Nato costituisce una vera minaccia: la Russia non vuole perdere la sua influenza nei paesi vicini dove la sua presenza non è mai venuta meno dopo lo scioglimento dell’Urss, nonostante il grande gioco americano e i progetti di integrazione della regione nella sfera d’influenza europea. Così facendo, non conta soltanto sulle forze militari di cui dispone nelle zone di conflitto dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud: la stragrande maggioranza delle popolazioni di questi territori avrebbe la cittadinanza russa. In caso di ripresa dei combattimenti, la Georgia si confronterebbe indirettamente con la Russia che, tramite il suo ministro della difesa, ha recentemente ripetuto che garantirebbe la protezione dei suoi cittadini . Tuttavia il rischio di un faccia a faccia con Mosca non è la sola preoccupazione dei dirigenti georgiani. Il presidente Saakachvili dispone di una maggioranza – sebbene uscita dalla «rivoluzione delle rose» – sempre più contestata dall’interno. L’opposizione denuncia sempre più severamente le sue derive autoritarie, protesta contro l’arresto avvenuto, all’inizio di settembre, di ventinove esponenti accusati di cospirazione contro il potere e contro l’anticipo di due mesi delle elezioni locali. Rinasce lo spettro degli anni Gamsakhurdia (9): il nazionalismo bellicoso del presidente, la cui parola d’ordine, «la Georgia ai georgiani», aveva nutrito il separatismo delle regioni di confine, e provocato addirittura a Tiblisi scontri da guerra civile.
A questo proposito, i leader separatisti Serguei Bagapch e Eduard Kokoïty, che si attendono un deterioramento delle loro relazioni con Tbilisi, pretendono che i governi georgiani che si sono succeduti in realtà non avrebbero mai rinunciato a questa politica. Appena scoppiata la crisi attuale, Putin ha messo in guardia il suo omologo americano sul rischio di destabilizzazione che rappresenterebbe un incoraggiamento di un paese terzo alla «politica distruttrice» georgiana (10). La sua voce è stata ascoltata: il 13 ottobre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità il progetto di risoluzione sul conflitto tra la Georgia e l’Abkhazia proposto da Mosca, al quale Washington si opponeva (11). Un documento che condanna l’incursione delle truppe georgiane, di cui chiede il ritiro dall’alta valle della Kodori. Di più, riconosce «il ruolo importante della forza (russa) di mantenimento della pace» in Abkhazia. È vero che Mosca, per parte sua, ha contribuito all’approvazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza che sanziona l’esperimento nucleare nord-coreano…
Sono probabilmente queste prese di distanza dell’Occidente, inclusi gli Stati uniti, nei confronti di Tbilisi che spiegano la reazione radicale del presidente Saakachvili il quale invita i georgiani di Russia a rientrare in Georgia per aiutare il governo a ristabilire l’integrità territoriale del paese – in altre parole: a battersi in Abkhazia (12).
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